Queste
sono le buie e relitte settimane
quando la natura in tutto il suo squallore
eguaglia la stupidità dell’uomo.
L’anno si sfalda nella notte
come crolla
e crolla ancora il cuore
in una terra desolata e battuta
dal vento e senza sole, senza stelle o luna
ma solo un quarto di luce
un pensiero
che trama un fuoco arcano
e intorno a sé arabeschi incielati
finché nel freddo divampa
fino a rendere l’uomo il cosciente
del nulla, neanche del suo stesso
stare solo. Non c’è uno spettro
e puoi toccarlo – tenerezza, vacuità,
disperazione – (loro gemono,
sussurrano)
tra lampi e fracassi di guerra
dimore nelle cui stanze il gelo
è più tagliente di quanto si pensi,
i morti che abbiamo amato,
i letti vuoti umidi i giacigli,
sedie intonse.
Nascondilo da qualche parte
nell’avamposto della mente
e lascia che si pianti e gemmi
– lontano da occhi e orecchi invidiosi –
solo per sé stesso.
È in questa miniera che tutti vengono a scavare.
Ed è questo lo stigma della melodia
più amata? La sorgente della poesia è quella
che vedendo l’orologio fermo dice fermo
è l’orologio che ieri così bene rintoccava?
E ascolta il canto dell’acqua lacustre
che si leva in fiotti. Adesso è pietra.
Mai letto niente di più bello e vero.
RispondiEliminanemmeno io
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