Paneperso
L’ho masticato a lungo, questo odore, ma tentare di definirne
l’aroma – lievito, sale, farina, acqua – è come scrivere sulla carta cerata
in cui è avvolto: il pennino non fa che scivolare. O l’inchiostro non attacca.
Quink nero-blu è quello che usavo allora. Mi piaceva il suo esser via di mezzo,
né una cosa né l’altra. Una stilografica Conway Stewart, bluastra-verde
in finta tartaruga… a volte la levetta mi si piantava nella carne viva del pollice,
la ricaricavo: gustavo il risucchio come col pane a tirar su l’ultimo sorso di
zuppa. Si diceva che il McWatters’ in cassetta fosse come la carta-assorbente: pensai
al diario di Leonardo o a un codice a specchio che terminasse con Mangialo.
Bene, alcuni gradiscono la carta assorbente. Quanto a me, consumavo gesso.
Farina cruda, avena. Carta. Carenza di vitamine? Gli angoli dei
miei libri non avevano orecchie, erano rosicchiati. Ma rosicchiati con cura, come l’indice
di un dizionario. Scorrevo tutta la lista di pesi e misure dalla A alla Z.
Così adesso sono nel solaio della farina di McWatters’. Cereali, chili e quintali:
l’aroma – lievito, sale, farina, acqua – è come scrivere sulla carta cerata
in cui è avvolto: il pennino non fa che scivolare. O l’inchiostro non attacca.
Quink nero-blu è quello che usavo allora. Mi piaceva il suo esser via di mezzo,
né una cosa né l’altra. Una stilografica Conway Stewart, bluastra-verde
in finta tartaruga… a volte la levetta mi si piantava nella carne viva del pollice,
la ricaricavo: gustavo il risucchio come col pane a tirar su l’ultimo sorso di
zuppa. Si diceva che il McWatters’ in cassetta fosse come la carta-assorbente: pensai
al diario di Leonardo o a un codice a specchio che terminasse con Mangialo.
Bene, alcuni gradiscono la carta assorbente. Quanto a me, consumavo gesso.
Farina cruda, avena. Carta. Carenza di vitamine? Gli angoli dei
miei libri non avevano orecchie, erano rosicchiati. Ma rosicchiati con cura, come l’indice
di un dizionario. Scorrevo tutta la lista di pesi e misure dalla A alla Z.
Così adesso sono nel solaio della farina di McWatters’. Cereali, chili e quintali:
Così tanta materia grezza. Io ero materia grezza. Era un impiego estivo, non
un vero lavoro. Io e quell’altro scansafatiche, parlavamo sempre del più e del meno –
sigarette e whiskey – tra una cosa o l’altra da fare.
Joe riteneva che il Three Swallows di Jameson fosse difficile da battere
sebbene si potesse sostenere la causa del loro Robin Readbreast, o del Gold Label
di Power. Ognuno aveva un tratto che mancava agli altri, per quanto non si riuscisse a descriverlo.
Come il Greens di Gallaher1: secco, affumicato, pungente. Lui aveva i capelli alla bebop –
bee-bap, come dicono a Belfast, una chioma crespa dorata ritta sulla testa –
E diverse volte era finito al fresco per piccoli reati. Furti?
Intrallazzi. Lavoretti notturni. Quelle furbate che ti fanno beccare.
E tant’è, allora si trovava tra una gattabuia e l’altra, come me tra due semestri.
un vero lavoro. Io e quell’altro scansafatiche, parlavamo sempre del più e del meno –
sigarette e whiskey – tra una cosa o l’altra da fare.
Joe riteneva che il Three Swallows di Jameson fosse difficile da battere
sebbene si potesse sostenere la causa del loro Robin Readbreast, o del Gold Label
di Power. Ognuno aveva un tratto che mancava agli altri, per quanto non si riuscisse a descriverlo.
Come il Greens di Gallaher1: secco, affumicato, pungente. Lui aveva i capelli alla bebop –
bee-bap, come dicono a Belfast, una chioma crespa dorata ritta sulla testa –
E diverse volte era finito al fresco per piccoli reati. Furti?
Intrallazzi. Lavoretti notturni. Quelle furbate che ti fanno beccare.
E tant’è, allora si trovava tra una gattabuia e l’altra, come me tra due semestri.
Sembrava che stessero per passare gli ispettori dell’igiene, così ci dettero
secchi zincati, spugne e quegli spazzoloni con la testa di un Golliwog
albino2. Il luogo esalava unto e bisunto, il vapore umido del pane in forno.
Come dicevo, si chiacchierava: calcio, bevute, ragazze, cavalli, anche se io
non sapevo granché di queste cose. Erano nuvole nel cielo blu del futuro.
Lungo la passerella scivolosa da una stanza di cottura all’altra – come nell’Inferno
di Dante, il bagliore notturno dei forni, il molle schiaffo delle forme
riempite a mano a mano – pensavamo al fresco del gabinetto o alla pinta del pranzo.
Il tratto amaro della Guinnes avrebbe permeato pane e zuppa di bue,
finché pane e zuppa e birra sarebbero diventati un tutt’uno. Parlavamo a bocca piena.
secchi zincati, spugne e quegli spazzoloni con la testa di un Golliwog
albino2. Il luogo esalava unto e bisunto, il vapore umido del pane in forno.
Come dicevo, si chiacchierava: calcio, bevute, ragazze, cavalli, anche se io
non sapevo granché di queste cose. Erano nuvole nel cielo blu del futuro.
Lungo la passerella scivolosa da una stanza di cottura all’altra – come nell’Inferno
di Dante, il bagliore notturno dei forni, il molle schiaffo delle forme
riempite a mano a mano – pensavamo al fresco del gabinetto o alla pinta del pranzo.
Il tratto amaro della Guinnes avrebbe permeato pane e zuppa di bue,
finché pane e zuppa e birra sarebbero diventati un tutt’uno. Parlavamo a bocca piena.
Poi si tornava da Ajax, da Domestos3 e al pandemonio di Augia.
Oppure a smistare pagnotte rovinate per i maiali – gli involucri cerati in un sacco,
le fette nell’altro; i maiali, a quanto pareva, erano esigenti. Altre volte,
impilavamo sacchi di farina vuoti: cesure nuvolose che fluttuavano l’una
sull’altra, con le stampe così sbiadite che a malapena si leggeva la scritta;
quella soffocante tessitura serviva solo a passare il tempo. Attimi dilatati,
davanti all’impasto che lievitava, le smagliature perse in enormi vescie di lupo – Era questa
la neve che splendeva tanto l’anno scorso?
Lavorammo lenti su tutti livelli, finché
non ci ritrovammo nel solaio n. 2, ben alti sopra al frastuono.
La mia ultima settimana. Quanto a lui, non lo sapeva. Ovattati da cumuli dimenticati
di farina, io pensavo al futuro, lui restava sepolto nel passato.
Quel trucco escogitato, quella ragazza conosciuta. Tutto conservato nelle celle.
Stillava soffocati discorsi mielosi, mentre io cantavo Que sera sera.
Oppure a smistare pagnotte rovinate per i maiali – gli involucri cerati in un sacco,
le fette nell’altro; i maiali, a quanto pareva, erano esigenti. Altre volte,
impilavamo sacchi di farina vuoti: cesure nuvolose che fluttuavano l’una
sull’altra, con le stampe così sbiadite che a malapena si leggeva la scritta;
quella soffocante tessitura serviva solo a passare il tempo. Attimi dilatati,
davanti all’impasto che lievitava, le smagliature perse in enormi vescie di lupo – Era questa
la neve che splendeva tanto l’anno scorso?
Lavorammo lenti su tutti livelli, finché
non ci ritrovammo nel solaio n. 2, ben alti sopra al frastuono.
La mia ultima settimana. Quanto a lui, non lo sapeva. Ovattati da cumuli dimenticati
di farina, io pensavo al futuro, lui restava sepolto nel passato.
Quel trucco escogitato, quella ragazza conosciuta. Tutto conservato nelle celle.
Stillava soffocati discorsi mielosi, mentre io cantavo Que sera sera.
Chiese se mi sarei ricordato di lui. Scrivemmo i nostri nomi sui vetri imbiancati.
La data, i nomi delle ragazze, cuori e frecce. Inventammo relazioni amorose tra i fornai
e le impacchettatrici – pane e carta – poi ripulimmo tutto.
Il vetro brillava per la prima volta dopo anni. Guardavamo fissi alla finestra
sul finire dell’estate. A intervalli volavano aeroplani verso un altrove:
piccole macchie, le bianche linee del loro passaggio velavano già il blu.
La data, i nomi delle ragazze, cuori e frecce. Inventammo relazioni amorose tra i fornai
e le impacchettatrici – pane e carta – poi ripulimmo tutto.
Il vetro brillava per la prima volta dopo anni. Guardavamo fissi alla finestra
sul finire dell’estate. A intervalli volavano aeroplani verso un altrove:
piccole macchie, le bianche linee del loro passaggio velavano già il blu.
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