mercoledì 1 febbraio 2017


Parlare piano a tanta distanza, parlare
ed essere uditi significa allargarsi in uno spazio
che, come il tuo, è ampio, dunque essere parte
di cielo, mare, di ampia terra e aria. Significa
percepire gli uomini senza riguardo alla loro forma.

II
Gli eserciti sono forme numerose, come le città.
Gli eserciti sono città in movimento. Ma una guerra
fra città è un gesticolare di forme,
uno sciamare di numero su numero, non
un piede che si avvicina, un braccio alzato.

III
La scorsa notte alla fine della notte una stella cristallina,
la stella del mattino a punte di cristallo, sorse
e illuminò la neve di una luce congeniale
a quest’ombra prodigiosa, che poi venne
in una libertà elementare, acuta e fredda.

IV
Il suo sapore era il sapore del giorno,
di un giorno non ancora visto, in cui
vedere era essere. Era la figura
di una poesia per Ljadov, l’io degli io:
pensarlo distruggeva la forma del corpo.

V
Era un guscio di vetro blu scuro, o ghiaccio,
o aria raccolta in un profondo assaggio,
o luce incarnata, o quasi un lampo
su spalle, braccia e petto più che muscolosi,
l’ultima trasparenza del blu nel divenire nero,
VI
il barbaglio di un essere che l’occhio
accettava ma che nulla capiva,
una fusione della notte, blu del polo di blu,
e della mente assorta, fisso salvo una lieve
illuminazione di moto nel respirare.

VII
Era alto come un albero al centro della notte.
La sostanza del suo corpo sembrava insieme
sostanza e non sostanza, carne luminosa
di fuoco armonioso: fuoco di un mondo sotterraneo,
di minor grado della fiamma e minor bagliore.

VIII
Sulla mia vetta respirava il buio pungente.
Non era uomo, ma nemmeno altro.
Se nella mente, svaniva, assumendovi
gli stessi limiti della mente, come cosa tragica
senza esistenza, che esiste dappertutto.

IX
Respirava in un mutamento a punte i cristallo
tutta l’esperienza della notte, come respirasse
una coscienza dalla solitudine, inalasse
una libertà dalla grandezza argentiforme,
contro tutta l’esperienza del giorno.
X
Argento informe, incrostata d’oro, la grandezza
del giorno venne mentre seduto pensava. Egli disse
“I momenti di crescita trascurano
il crescere del grido del più semplice soldato
in quel che sono, mentre cade. Di quel che sono,

XI
il grido è parte. I miei solitari
sono le meditazioni di una mente centrale.
Odo i moti dello spirito e il suono
di ciò che è segreto diviene, per me, una voce
la mia stessa voce che parla nel mio orecchio.

XII
Qui sta il dolore, il laccio più freddo
che afferra il centro, il morso vero: la vita
stessa è come una povertà nello spazio della vita,
così che questi colpi di vento intorno a me
sono brandelli che non posso trattenere.

XIII
Nonostante ciò, la sua massa gigantesca
divenne forte, quasi il dubbio non gli toccasse il cuore.
Di cosa era la forza? Da quale desiderio
e quale pensiero veniva questo splendore?
In quale nuovo spirito aveva origine il suo corpo?

XIV
Era più che una maestà esterna
oltre il sonno di coloro che non sapevano,
più che un portavoce della notte che dicesse:
ora, il tempo è fermo. Veniva fuori dal sonno.
Sorgeva perché gli uomini volevano che esistesse.

XV
Volevano che di giorno esistesse, immagine
ma non persona della loro potenza, pensiero
ma non pensatore, ampio della loro ampiezza,
oltre la loro forma, la loro vita, eppure di loro,
escludendo con la sua ampiezza le loro mancanze.

XVI
La scorsa notte alla fine della notte la sua testa stellata,
come la testa del destino, guardò nel buio, parte
di esso e parte desiderio e parte il senso
di ciò che gli uomini sono. L’essere collettivo sapeva
che vi erano altri come lui al sicuro sotto i tetti:

XVII
il capitano immiserito sul guanciale, il grande
Cardinale intento alle prime preghiere mattutine;
la pietra, l’effige categorica;
e la madre, la musica, il nome; lo studioso,
la cui mente verde si gonfia di tinte complicate:

XVIII
veri trasfiguratori tratti dal monte umano,
veri geni per gli umiliati, sfere,
embrioni giganti di popolazioni,
amici blu in ombre, ricchi cospiratori,
confidenti e confortatori e parenti illustri.

XIX
Dire cose più che umane con voce umana
non può essere; dire cose umane con voce
più che umana, anche non può essere;
parlare umanamente dall’altezza o dalla profondità
delle cose umane, questo è il più acuto parlare.

XX
Ora io, Chocorua, parlo di ques’ombra come
cosa umana. E’ un’eminenza, ma di nulla,
paccottiglia del sonno che svanirà
con i particolari della notte, a poco a poco,
nella costellazione del giorno, ma resterà, ma sarà,

XXI
non padre, bensì nudo fratello, megalfrère,
o comunque rozzamente un uomo possa
chiamare l’io comune, fons interna.
E fond, l’uomo totale del globo globale,
vagabondo politico dell’aria araldica,

XXII
casuale come nuvole, metafora metafisica,
ma posato su di me, pensante nella mia neve,
fisico se l’occhio è abbastanza svelto,
sicché dov’era c’è un accendersi, dov’è,
l’aria cambia e diviene fresca da respirare.

XXIII
L’aria cambia, crea e ricrea, come forza,
e respirare è un esaudire il desiderio,
un chiarire, scoprire, completare,
un’ampiezza vissuta e non concepita, uno spazio
che è una natura istantanea, brillante.

XXIV
Integrazione per integrazione, le grandi armi
delle armate, gli uomini solidi, gonfiano la favola.
Questo è il loro capitano e filosofo,
lui che è fortilizio, per quanto sia
dura da percepire e più duro da toccare.

XXV
La notte scorsa alla fine della notte e nel cielo,
la notte minore, la men che luce mattutina,
cadde su di lui, alto e freddo, in cerca di ciò
che gli era nativo in quella altitudine, in cerca
del piacere del suo spirito nel freddo.

XXVI
Quant’era singolare come uomo, quanto ampio,
se nulla più di ciò, per il momento, ampio
nella mia presenza, compagno di presenze
più grandi della mia, da lui invocate, capo
e, delle realizzazioni umane, robusto re…


Wallace Stevens, in, Tutte le poesie, Meridiano Mon
dadori

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