martedì 10 novembre 2020

 È quando non vi è alcun dubbio

– né un sorriso malcelato e nemmeno
lo scendere le scale pensando che sarà
l’ultima volta – che ci perdiamo. Succede
a volte seduti a pranzo o nel sottoscala
ricolmo di scarpe – nel doponotte
che si trasforma in una sequenza
di parole che abbandonano un corpo
e non trovano altro dove andare
che le pietre scottate dal sole e un lento
movimento delle mani. Lì ci lasciamo
per ritrovarci al calore di una nostalgia
quasi allegra – una casa di altri tempi
e una lieve redenzione oltre la porta.

***

Bene – io sono arrivato. Mi piacerebbe
poter dire – sentirlo almeno
il peso del passo più lieve
e l’idea che un posto sia il mio posto.
Un posto che è il mio posto – ripeto
queste parole che vorrebbero
aggrapparsi al terreno – si sforzano
di penetrarlo. Ma quando ci provo
sono l’ombra che mi passa accanto
e fugge al primo tocco del sole
di sbieco a cercare le vittime ignare.
L’ombra di un luogo – l’orizzonte
che si incendia e l’incavo tenace
in un tronco di quercia. Quello è il mio posto.

***

Si sono presi la fontana – adesso ne rimane

una cicatrice – e quel bisogno di correre
da un lato all’altro dei prati – correre
sapendo che l’unica cosa buona che
può capirarti è inciampare – hai sette anni
ti danno in mano un rastrello proporzionato
alla tua età – pensi che è come la vita:
raccogli il fieno ne fai un piccolo covone
ci sali sopra e tutto si rimpicciolisce e cade.

***

Poi ci sono le cose che avrei dovuto dire
e sono così tante che mi fermo – mi fermo
e respiro per non soffocarle.
Ho sempre agito così. Per sottrazione.
Riempiendo una riga dopo l’altra
di quel silenzio che non potevo tacere
– giustificando la mia indole
di pietra che graffia e s’arrovella.
Con una mano scrivevo
e con l’altra cancellavo le ombre –
finivo per esserne parte – toglievo
ciò che di me m’importava
e lo nascondevo ai miei stessi occhi.
Ero lo stesso io – ma senza di

Michele Obit

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