la domenica venivano le cugine ricche, io e mia sorella, se era estate, gironzolavamo per il cortile, facendo a gara a chi avrebbe visto per prima il muso della Giulietta imboccare la stradella bianca;
poi le guardavamo scendere e annusavamo l'odore della città che era rimasto imprigionato nell'abitacolo insieme ai loro vestiti sempre nuovi e per quanto nostra madre ci vestisse come se si andasse a nozze, in quelle domeniche delle cugine improvvisamente ci sentivamo coperte da tessuti usati, non dritti e inamidati come circondavano i loro colli bianchi, le scarpe erano già inesorabilmente impolverate e tentavamo di nascosto, con lo sputo, di lucidarle, ma serviva a poco, così le cugine ricche erano regine, erano uscite dalla favole, dai libri, da qualcosa di immateriale che non riuscivamo ad afferrare, solo l'anno dopo avremmo potuto fingerci cittadine, fare le ridicole con quelle calze traforate, danzare di punta agghindate come baronette, ed era quando ci passavano gli abiti usati delle cittadine, ci stavano larghi, ci stavano stretti, non faceva niente, ce li mettevano e come eravamo goffe e vergognose quando tornavano un'altra domenica ancora, ci sembrava che sogghignassero sotto i baffi, era allora che capivamo che la rincorsa non sarebbe mai finita, sarebbe rimasta anche impressa per sempre in quello scarto di vita.
Un giorno qualcuno scriverà un'opera monumentale mascherata da romanzo di formazione o un manuale sul ruolo chiave dei cugini che vivono in un'altra città, e di come le esistenze di tutti quelli che hanno avuto il piacere di averne siano tarate sul gioco nel meccanismo di quelle amicizie imperfette diversamente percepite. E le tue parole saranno incise in esergo con caratteri di fuoco in entrambi i casi
RispondiElimina