giovedì 31 ottobre 2019

nella minuscola camera ostile
una sola bustina di sapone, da dividersi per la pulizia della sera e per quella della mattina, il solito lenzuolo di cui riconosco il grumo di pieghe al centro, come la volta precedente, un cuscino con la federa forse pulita e l'altro inutilizzato, niente è stato toccato dall'ultima volta che sono stata qui, stavolta nemmeno il posto dell'ingombrante appendi abiti, che sta ai piedi del letto, ma altre volte era ad esso parallelo, così dovevo spostare la sedia, il comodino e poi l'appendino prima di riuscire ad infilarmi nel piccolo divano detto con una sponda bassa e dura verso il muro
nella stanza ostile che misura due metri per uno però l'ultima volta c'era un separé, alto, pesante, forse una vecchia porta dipinta, che mi occludeva l'ingresso del bagno e per non farlo cadere in avanti (non si poteva chiuderlo, né piegarne una parte senza che si rischiasse di farlo precipitare sul letto) ho compiuto manovre da ladro, passando di lato, di fianco ogni volta, con le braccia alzate,
nella piccola stanza ostile dell'alberghetto
ieri il tavolo degli ospiti era preparato a puntino,
tovagliette all'americana in finta seta, rosa con molte rose stampate, tripudi di rose, alcune in plastica pendevano dalla lampada a lato della finestra, al centro del tavolo un cestino stracolmo di cose da mangiare e nel frigo i famosi burrini, finalmente, da tempo tenuti sotto chiave nella cucina dell'alberghetto come fosse la dispensa di un convento,
ho ricordato che sul mio comodino c'era una confezione di fette biscottate, nella plastica sottile e trasparente, e un cilindretto di marmellata dura, all'albicocca, che ho subito mangiato, in due bocconcini gelatinosi, in un secondo avevo finito la confezione alberghiera e dolce, placata al momento la fame della notte di lavoro e la spossatezza mentale.
La proprietaria della camera ostile, la mattina mi aveva mandato un messaggio che nel piccolo frigo delle colazioni ci sarebbe stato dello yogurt ma non c'era, così mi sono decisa a coricarmi, sempre sul lato sinistro, il meno scomodo, dove le braccia possono anche uscire dalla sponda e non bloccarsi sull'altra sponda, semi imbottita del divano letto, ma comunque dura, costringente,
le lenzuola e il copriletto, anch'esso un semi imbottito, lucido, coloro rosa carne, in qualche materiale sintetico, scivolano di continuo verso il pavimento, non prendo quasi mai il sonno completo, piccoli e continui risvegli si susseguono per ricoprirmi di nuovo, per il freddo alle spalle, alla testa persino,
stavolta nella camera ostile ho istruzioni strane, più vaghe di sempre come di chi mente senza voler farlo trasparire del tutto, lasciano l'alea della possibile verosimiglianza
mi viene detto di lasciare la chiave appesa al portachiavi invece che nella buca delle lettere in strada, come sempre, come la notte e come ogni volta che lascio la stanza ostile,
e di non infilarvi i 30 euro che le devo per la stanza, anzi di non pagare proprio che pagherò,
penso sia una questione di nero o meglio di quota di affitto che gli ospiti non debbano scoprire, così sparisce, come sparisce ogni mia traccia, salvo l'uso dei due asciugamani, sempre quelli, da viso e da bagno, che anche stavolta per la mia imperterrita educazione contadina, piego sul box della doccia,
anche ieri sapevano di caglio di latte,
così, come sempre, sono uscita con la preoccupazione che questo odore acidino mi fosse rimasto attaccato alla pelle ed entro al Coin e mi spruzzo un paio di profumi di marca Dior o Armani dai tester.
Poi vado a lavorare.

*

Caro G.
stanotte sei entrato finalmente in un incubo,
buon segno,
hai inciso oltre che nei sentimenti belli e anche ambivalenti e nebbbiosamente erotici che ho per te.
gli ultimi che mi hai lasciato,
hai spezzato un sortilegio e sei diventato anche tu normativo, preside, padre, maestro e tutte le figure passibili di scattare in rimproveri severi ed asciutti che mi trascino dalla nascita come una compagnia che vedrei bene vestita da magistrato, parrucca compresa, da giuria in assise.
Caro G., stanotte mi hai sorpresa mentre ero a buon punto con il trasloco e finalmente avevo ascoltato il diktat del marito diviso e indiviso - butta via tutto, via via il passato, che te ne fai - e facevo avanti e indietro dalla grande discarica degli oggetti ingombranti, avevo fatto fagotti e bracciate di oggetti, statuette, quaderni, libri (dio mio) e trascinato mobili di legno buono pur se vecchio nel piazzale del grande deposito cittadino, ma mi sei apparso davanti, a braccetto di quella che nel sogno era tua madre ma era invece una figura lontanissima che non avrei altrimenti ricordato se non si fosse incarnata nella tua mamma biologica
ed essa era la Fosca, l'aiutante delle suore del doposcuola della prima elementare,
una donna lunga, segaligna, avanti con l'età ma non si sarebbe detta anziana dal nerbo che dimostrava con noi bambini, le braccia con muscoli come elastici, il mento scattante, gli zigomi ossuti e appuntiti, la bocca come una cerniera di carne secca, gli occhi piccolissimi e mobili dietro lenti spesse e dure,
l'autorità della Fosca è intaccabile per come passava tra le brandine del dopopranzo dov'era obbligatorio dormire, il primo anno (quando crescevi, dovevi dormire sulle tue braccia conserte, con la testa immersa e quasi appoggiata al banco di formica che si allagava o di sudore o di lacrime silenziosissime) e lei diventava una generalessa, persino la sua più che slavata divisa carta da zucchero pareva rinnovarsi e luccicare un poco guardandola da sotto, ancora più alta, altissima, un drone si direbbe oggi, un grosso insetto silenzioso, una cavalletta che riusciva ad essere lontana e appena socchiudevi gli occhi era già sopra di te a ronzare e a respirare con le nari del toro di cui mi hai parlato,
e quindi nel sogno era lei tua madre, eri tu a tenerla stretta al tuo fianco, eri tu a farmi le tremende domande al suo posto:
dove sono le statuette, non lo sai forse che sono antiche ceramiche cinesi?
dove hai messo quel trumeau, non lo sapevi che era stato fatto a mano da un ebanista e che era un pezzo di famiglia?
domande su domande, un interrogatorio diviso da una specie di cattedra dietro la quale stavo io ma interrogavate voi,
la Fosca non parlava ma il suo viso era contrito e virava in smorfie di disgusto per le mie indegne azioni di sbarazzamenti di preziosità che mi erano state donate da te e ora erano arrivati rinforzi per reclamarle indietro, era chiaro che dovevano risultare intatte e dovevate portarvele via, sottrarmele, perché diventata indegna di possederle, era evidente che avevi fatto un grosso errore a lasciarmi quei valori, era chiarissimo che eravamo separati da tempo come se mai ci fossimo sposati, però ci sono separazioni che legiferano più dei divorzi, credo, così era stanotte, così è stato nell'incubo di stanotte dove ho preso a ricercare tutte le vostre cose preziose e impaurita a riportarvele, ma non erano già più come prima,
per esempio con terrore notai che una statuetta, donnine dagli abiti dipinti in colori da affresco, giovinette di casati di campagna, come nei dipinti fiamminghi, una statuetta aveva un foro irregolare sulla bella testolina, una tessera minuscola ma mancava e le tenevo abbracciate forte come una cucciolata di gattini e mi veniva da piangere ma mi sarei condannata da sola all'istante, così guardavo quella testa bucata e poi voi di sottecchi, e tremavo tremavo.
Non so se alla fine o all'inizio o in mezzo al sogno, ma chissà come prendevo un aereo familiare, nel senso che pareva più di stare seduta accanto a qualcuno che guidava un'auto per me, e parlavamo serenamente, in quel volo salivo e salivo in un cielo azzurrissimo, come quelli di marzo, freddi e tersi, e facevamo delle soste, non so dove, era il pilota a deciderle, e poi si ridecollava e provavo una gioia fremente a salire salire l'azzurro ed ero sorpresa e sorridevo e parlavo amabilmente con qualcuno, senza volto.

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