martedì 7 marzo 2017

così sia, anima mia, ora faccio discorsi da osteria, confronto preventivi sulla piallatura, sul bianco mestiere di avere un bicchiere davanti e farlo durare e durare, disegnando stradette sul tavolo con le dita, mia vita, vedi, ho chiesto al dottore di tirarmi fuori per bene la lingua, è da lì che avrebbe visto il cuore diventato lisca, la deglutizione impossibile, il male ad ogni boccone e i pezzi di pane tenuti nelle guance, come un roditore, ma non è facile neanche fare scorte, arriva qualcuno che ti ricorda la vicinanza della morte e a che serve, lo dicevano i vecchi che niente ti puoi mettere da parte, se non te stesso, che sei nato urlando il vuoto e nel vuoto galleggerai all'infinito, ma non come quelle belle immagini lente degli astronauti che salutano le stelle, loro solo hanno visto quanto scodinzolano, ti vengono incontro, anzi addosso e dopo devi spolverarti le vesti, tornare opaco, stanco, con un bottone che pende, sai, avevo un discorso sapiente ma forse è convalescente, come l'età che non si conosce se si reggerà da sola o sarà da tutelare, chissà se mia madre ci pensava mentre mi faceva sgranare, ero l'addetta invernale al baccello, mi davano un secchiello da tenere tra le gambe e se lo riempivo potevo andare a giocare, insomma a correre per le ghiaie, mercuriale, imprendibile e multiforme, mi potevano mettere in una tazza e sarei stata concava o sulla spianatoia e sarei diventata lenzuola, ma ora, mia gemma di albicocco, ciò che ti mostro non è più nostro, ha perso di padrone per usucapione, ci vorrebbe un baratto: io ci metto i calli che mi sono spuntanti sulle mani, tu mi rendi una data successiva, quella che banalmente chiamiamo un domani?

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